lunedì 21 dicembre 2009

La Madonna Tricefala ai raggi X.
Analisi comparata di un affresco ambiguo...




Per venire incontro a delle domande che mi sono state poste dai lettori, interrompiamo la nostra digressione e cerchiamo di mettere meglio a fuoco lo strano caso di questa Madonna a tre teste affrescata nel chiostro dell'abbazia perugina di San Pietro.

In primis, com’è possibile affermare con assoluta certezza che quella dipinta nell’affresco sia una Dea e non un Dio?

In effetti, le guide turistico-religiose del comprensorio perugino parlano con scioltezza del dipinto di San Pietro come della raffigurazione di una classica Trinità trifronte.

Che non sia affatto così lo possiamo capire solo confrontando altri casi ‘analoghi’ di vultus trifrons tramandati dalla tradizione iconografica. Diamo un’occhiata ad un affresco del XIV secolo [in alto] posto nella chiesetta dei santi Severo e Agata, lungo la medievale via dei Priori.

A parte il giochetto simmetrico dei due occhi che insistono su tre volti, il carattere che distingue nettamente l’affresco di San Pietro da questo, la cui datazione è tra l’altro quasi la stessa, è la presenza di una barba fluente. Barba che nelle raffigurazioni stilizzate dei volti permette di stabilire [oltre alla presenza meno appariscente di lineamenti più dolci e di un viso più ovalizzato] se l’artista in questione si riferisca ad una figura di sesso maschile o femminile.

Queste coordinate le ritroviamo più marcatamente in tutte le raffigurazione della Trinità a Tre Teste che il medioevo ci ha tramandato, tra le quali voglio citare per la vicinanza stilistica con l’affresco perugino a sant’Agata, una pittura absidale presente nella chiesa ticinese di San Nicolao ascrivibile alla seconda metà del XV secolo [sotto].


Qualcuno potrebbe sempre dirmi che il sottoscritto si stia sbagliando, perché una leggerissima peluria si distingue anche nel nostro affresco del chiostro di San Pietro, nella figura di sinistra [in basso]. E invece questo dettaglio, più che smentire l’eccezionalità dell’affresco di Perugia, ne conferma anzi le tante incongruenze.

Infatti l’affrescatore che realizzò il lavoro, di probabile scuola giottesca, avendo in mente gli svariati casi di vultus trifrons che venivano commissionati ai suoi colleghi ebbe un’evidente esitazione nel dipingere questa Trinità.

Cominciò a tratteggiare una leggera peluria lungo il mento della prima figura a sinistra, poi qualcosa lo fermò. Lo fermò al punto che ancora oggi questa pittura è talmente ambigua da farci sospettare che davvero qui a San Pietro si sia verificato un caso eccezionale di sincretismo con qualche vecchio culto pagano tributato ad una dèa più antica della Madonna.
Ma cosa fermò la mano del nostro affrescatore?


È probabile che fosse un’indicazione degli stessi monaci benedettini, i committenti della chiesa.
Ad un mistero già fitto se ne aggiunge così un altro. Perché in questa chiesa extra moenia immersa nel bosco che fu, è bene ricordarlo, la prima chiesa cattedrale di Perugia, venne commissionato nel Trecento un affresco tanto strano per la storia iconografica del medioevo? Strano al punto da indurre all’errore il suo stesso autore, che interruppe bruscamente il tratteggio della barba sulla Trinità a Tre Teste, lasciandoci così alla vista una dea al posto di un dio?

mercoledì 2 dicembre 2009

La Madonna a Tre Teste: dove eravamo rimasti?


Nel post di settembre avevamo analizzato un affresco duecentesco con la misteriosa Madonna a Tre Teste in trono sulla facciata della chiesa abbazia di San Pietro a Perugia.

Ora qualcuno potrebbe venirmi a dire: “curioso l’affresco della Madonna a tre teste, sì. Ma cosa c’entra con la dea greca Ecate?”

Come ho già spiegato parlando della stregoneria francescana, sia in questo blog che nel libro, noi moderni abbiamo un’idea fuorviante della società medievale non solo perché gli uomini che la animarono non sono più fra noi, ma perché non è più sotto i nostri occhi il loro paesaggio visivo. L’abbazia di san Pietro a Perugia ne è un caso lampante; fagocitata oggi entro le mura cinquecentesche e accerchiata dal palazzinarismo postunitario [foto in basso], il monastero benedettino non ci appare più per quello che era agli inizi, cioè un corpo isolato immerso in una vegetazione impenetrabile, ma sembra quasi una chiesa urbana, circondata dai monumenti e dai giardini di una città famelica, affamata di spazi, una città di cui nulla sapevano i perugini del MedioEvo, e a maggior ragione i loro antenati etruschi.



1100 metri. Tanto distava la primitiva chiesa di san Pietro dalle mura etrusche, al punto che fino al primo Rinascimento l’abbazia svettava ancora solitaria in mezzo a un fitto boschetto in cima al Monte Caprario. Ma perché costruirla nel 900 d.C. in un luogo tanto desolato, nominandola addirittura prima cattedrale [fuori le mura] di Perugia? Proviamo a ipotizzare per un attimo che questo angolo dell’acropoli, oggi schiavo del traffico cittadino, non fosse un sito tanto sconosciuto nella Perugia etrusca… Ci viene incontro Giovanni Feo, studioso controcorrente di etruscologia e antiche usanze.

Al termine dell’Era ‘megalitica’, gli Etruschi e i Celti furono i popoli che conservarono e diffusero in Occidente le antiche tradizioni relative al Bosco Sacro. […]
Comunque fu un bosco sacro ad essere il maggiore luogo di culto ed il simbolo centrale della tradizione etrusca, e una prestigiosa selva il centro di riunione annuale dei Lucumoni delle dodici città confederate, presidio inespugnabile a difesa e a protezione magica dell’Etruria. […]
Si potrebbero trovare ancora altre sorprendenti ‘coincidenze’ tra la tradizione etrusca e quella celtica ma, in questa sede, sarà sufficiente l’aver accennato a tali prospettive ricordando solo che l’etimologia più accettata della parola Lucumone viene fatta risalire al greco lukòs (bosco) e quindi il Lucumone sarebbe propriamente un ‘sacerdote del bosco’, così come il termine druido, dal greco drùs (quercia), potrebbe tradursi con ‘sacerdote del bosco di querce’.


Cfr. G. Feo, Dei della terra : il mondo sotterraneo degli etruschi, pp. 101-105.

È molto probabile quindi che, se questo luogo era sacro fin dall’età antica, il Lucumone di Perugia tenesse qui in zona le sue cerimonie, in mezzo alla selva che ancora nel Medioevo cingeva la chiesetta con la sua Madonna tricefala affrescata. Non conosciamo in modo approfondito il pantheon etrusco, i romani l’hanno spazzato via dalla storia e la mancanza di una mitologia propria ci preclude ogni possibilità di dare un nome all’antenata pagana di quella curiosa Madonna trifronte. Per accostare una tradizione magico superstiziosa all’altra, pertanto, dobbiamo fare quasi un salto nel buio, affidandoci al filtro della credulità medievale in cui tradizioni ctonie come quelle italiche ed etrusche si fondevano facilmente all’immaginario della tradizione greco-romana. Nel mondo greco esiste un precedente simmetrico della Madonna di san Pietro, e cioè la dea Ecate, che non solo era tricefala (a simboleggiare le tre fasi lunari) ma regnava anche sull’Oltretomba. Attributo per cui, specie nella versione italica, la figura di Ecate venne sempre più a coincidere con la pratica della magia e il suo culto in breve fu associato ai boschetti sacri, come quello attiguo al lago Alverno in Campania, teatro di riti stregoneschi a lei dedicati.

Visto che la funzione principale del monaco in età altomedievale era quella di sottrarre campagne e foreste al fronte pagano, combattendo superstizione e stregoneria, l’esistenza di questa abbazia sarebbe giustificata a pieno.

Ma se è lapalissiano che il luogo dove sorse poi l’abbazia perugina di san Pietro era immerso nella vegetazione, e se non è affatto improbabile che in questa selva già i sacerdoti etruschi di Perugia officiassero riti, c’è un terzo elemento, l’Oltretomba e l’attributo di dea degli Inferi di Ecate, che ancora non riusciamo ad associare a questo affresco della Vergine. Dove sorse l’abbazia con l’affresco della Madonna a tre teste c’era in origine un folto bosco, ok, ma come la mettiamo invece con il sottosuolo e i misteri dell’al di là legati alla dea degli inferi Ecate?

La risposta si trova ovviamente sottoterra, o meglio, sotto il livello della chiesa attuale.
Sì, perché è giunto il momento di scendere nei sotterranei dell’abbazia di san Pietro per scoprire una cella adibita al culto nei primi secoli cristiani, secoli e secoli prima dell’erezione del monastero…

Al prossimo post!

mercoledì 4 novembre 2009

Uno stregone a UmbriaLibri


Avviso tutti gli apprendisti stregoni della zona, e non solo, che da mercoledì 11 fino a domenica 15 novembre sarò presente nella kermesse editoriale di UmbriaLibri 09 come Eleusi Edizioni con uno stand nello spazio espositivo del Centro Servizi Camerali di Perugia [via Mazzini, davanti al Caffé di Perugia].

La settimana culminerà domenica 15 presso la Sala Cannoniera della Rocca Paolina alle ore 16:00 con la presentazione del libro inchiesta Lo stregone di Assisi in collaborazione con l'Associazione Culturale Civiltà Laica, rappresentata dal dottore e saggista Maurizio Magnani, ed il circolo Uaar di Perugia, con l'intervento del responsabile locale Giovanni Galieni.

L'obiettivo che mi prefiggo è quello di far emergere il vero cuore magico e pagano dell'Umbria, edulcorato per secoli con una nutritissima serie di falsi e omissis storici sotto il giogo del potere ecclesiastico.

Sarà un miracolo riuscire a interessare il pubblico senza scandalizzarlo. Rimango convinto che con la tua presenza questo miracolo sia infinitamente possibile ;)

giovedì 24 settembre 2009

Madonna a Tre Teste: incredibile affresco all'abbazia di San Pietro a Perugia!



Eccoci all’abbazia benedettina di San Pietro, a Perugia.

Quando sorse sotto il pontificato di papa Silvestro (337 d.C.), cioè poco più di vent’anni dopo l’Editto di Milano con cui l’imperatore Costantino si ergeva a defensor della cristianità, fu subito creata cattedrale di Perugia.

Qui balza agli occhi la prima stranezza.
Sì, perché la primitiva chiesetta di San Pietro non sorgeva affatto entro le mura etrusche di Perugia ma ben distante da esse, a più di un chilometro, immersa nella fitta boscaglia di una collinetta che cinge Perugia, il
Monte Caprario.

Cosa ci faceva da queste parti una cattedrale che avrebbe dovuto trovarsi entro le mura urbiche?


La sua collocazione, di per sé, è già un rebus.
Fatto sta che nel 936 d.C. il Vescovo Ruggiero elesse a nuova cattedrale della città la chiesa di S. Stefano del Castellare, mettendo fine così alla cattività fuori le mura della comunità cristiana perugina.
Iniziò per la nostra chiesetta un progressivo degrado e abbandono a cui mise fine solo trent’anni più tardi un certo
Pietro Vincioli, nobile di Montelagello (località non distante da Marsciano).

Vincioli, mosso da fervente 'devozione', ebbe l'idea d’investire parte delle proprie ricchezze per riscattare il luogo di culto, ridotto ormai ad un ammasso di rovine e di destinarlo a sede di un monastero benedettino.
La scelta si rivelò azzeccata, tanto che al
Concilio di Ravenna del 967 ne fu nominato primo abate; e non si fece attendere nemmeno la nuova consacrazione della rinata chiesa, celebrata appena due anni più tardi dal Vescovo Onesto.

Che quello fatto dal pio Pietro fosse un ottimo investimento lo confermarono negli anni successivi le continue schermaglie con il nuovo vescovo cittadino Conone, desideroso di appropriarsi dei succulenti privilegi fiscali accordati al monastero nel 1022 dalla bolla papale di Benedetto VIII, e confermati perfino in un diploma del Barbarossa datato 1163.


Tralasciando l’aneddotica storica, cos’ha di tanto particolare questa chiesa oltre all’essere stata -al pari di altre abbazie nei 'secoli bui' del MedioEvo- un paradiso fiscale?

Ce ne accorgiamo percorrendo il chiostro, che fu “spalmato” sulla primitiva facciata della chiesa medievale nel XVII secolo come una museruola, rendendone illeggibili gli affreschi.
Non tutti però!



Se nell’edicola sinistra della facciata campeggiano una serie di soggetti di facile lettura tra cui si distinguono un Trionfo degli apostoli Pietro e Paolo, l’Annunciazione alla Vergine, e un San Giorgio Cavaliere intento a trafiggere il drago, il bello viene nella parte destra della facciata!

Incassato, quasi inghiottito, nel nuovo chiostro seicentesco affiora un affresco più unico che raro, la Trinità tricefala.
Si tratta di una raffigurazione della Trinità, di scuola giottesca o arnolfiana, notoriamente eretica tanto che fu vietata nel 1628 da papa Urbano VIII al concilio Tridentino.

E non è un caso se Valentino Martelli, che era stato progettista di questo chiostro appena quattordici anni prima, decise saggiamente d’infossare l’affresco in odor di eresia, senza murarlo: il suo intervento ci consente ancora oggi di rimirare quest’opera e di notarne un altro dettaglio di gran lunga più scabroso.

Nel chiostro di San Pietro, infatti, ci troviamo di fronte ad una raffigurazione della Trinità palesemente femminile, tanto da farci supporre che in realtà il personaggio assiso in trono che stiamo rimirando non raffiguri l'Eterno, in barba alla filosofia patriarcale medievale, ma sia in tutto e per tutto una Madonna.

Come? Una Madonna Tricefala?

Malgrado i critici d’arte che si sono occupati finora dell’affresco si ostinino a negare l’evidenza, dichiarando a chiare lettere che questo affresco raffiguri una classica Trinità maschile, noi turisti impertinenti non riusciamo proprio a farci passare di mente questa 'strana' idea.

Infatti, se papa Urbano vietò in quel di Trento raffigurazioni equivoche come appunto il Vultus Trifrons, temendone le contaminazioni pagane che potevano generare -quelle stesse contro cui si era scagliato Lutero- è mai possibile che dietro l’elegante fattura di questo affresco si celi un riferimento, neanche troppo velato, ad una divinità femminile tricefala del paganesimo antico?

È possibile che questa inverosimile Madonna a tre teste abbia qualcosa da spartire con la dea greca dalle tre teste Ecate?

Per abbozzare una risposta dobbiamo varcare la soglia della chiesa di San Pietro, abbandonando per un attimo il suo chiostro.

Che dite?
Ce n’è abbastanza per tenervi tutti incollati al prossimo post?



Bibliografia essenziale ---

Mario Montanari, Mille anni della chiesa di s. Pietro in Perugia e del suo patrimonio, Foligno 1966.
Martino Siciliani, L' Abbazia e la Basilica di S. Pietro in Perugia : storia e arte, Genova, 1994.
Giuseppe Maria Toscano, I mille volti di Cristo nell'arte, Parma, 1991.

martedì 28 aprile 2009

Le sacerdotesse di San Fortunato: i misteri delle grotte di Montefalco.


Finora abbiamo parlato a fondo della stregoneria francescana e di come il poverello riuscì a volgere a suo favore gli antichi culti della terra per accelerare le conversioni nei pagi. Ma siamo sicuri che nella storia locale il maghetto di Assisi sia stato solo una meteora senza insigni predecessori?

Perdiamo di vista le lancette dell’orologio, dimentichiamoci la cronologia e tuffiamoci nelle tradizioni più ancestrali del folklore umbro.
Non serve nemmeno spostarsi troppo da Assisi; appena una trentina di chilometri e siamo già sul set di un altro intrigo. Appena una decina di chilometri e siamo già a Montefalco.
Qui nel Settecento accadde qualcosa di molto grave agli occhi del Clero; tanto grave da indurre i frati della Porziuncola che controllavano i conventi della zona, a emettere un decreto dove si prendevano misure severissime contro un fenomeno le cui origini già allora si perdevano nella notte dei tempi. Le processioni notturne alle grotte di San Fortunato.
Di che si tratta esattamente? Leggiamo con attenzione il testo del Decretum così come ci è stato tramandato nella Cronaca della Provincia Serafica di San Francesco.

« Dai nostri religiosi di S. Fortunato di Montefalco erasi, a quanto pare, introdotto l’uso, o meglio dir l’abuso, nel dì 1° di giugno, festa di S. Fortunato, di andare processionalmente coll’intervento anche di donne alla Grotta esistente entro la selva clausurata del convento, che vuolsi santificata dai santi Fortunato e Severo protettori di Montefalco, ove in questa congiuntura vi si celebrava anche la S. Messa in un altare ivi eretto. Essendo pervenuto ciò a notizia dei padri del definitorio e considerando esser tutto ciò indecente, poiché non essendo detto luogo santuario; non solo non è necessario, né utile, né tampoco onesto, né decoroso il privare di messe la chiesa conventuale per celebrarle ivi nella nicchia, e molto meno lecito introdurvi donne: epperò non dovendosi permettere né tollerare, e per ovviare anco al pericolo di qualche inconveniente, che coll’andare del tempo potesse accadere; con decreto del 10 maggio [1725, n.d.a.] hanno risoluto di proibire siccome in virtù del presente gravemente proibiscono al p. guardiano pro tempore, ed a tutti i sacerdoti del predetto convento di celebrare, o permettere che in avvenire si celebri in detta Grotta, sotto pene arbitrarie, e l’introdurvi donne sotto pena di violata clausura; ordinando altresì al p. guardiano di levare da quell’altare la pietra sagrata. »

Per qualche attimo rimaniamo sgomenti.

Solo di una cosa siamo sicuri: le processioni di uomini e donne a cui allude il documento, venivano illecitamente incentivate dai frati del convento di San Fortunato malgrado le grotte non fossero un santuario.

Di più; il fatto che un corteo femminile si snodasse ogni primo del mese di giugno per la selva sottostante il convento, violando di fatto la clausura conventuale, ci fa intuire quanto le luminarie fossero invise alla Curia. Ma perché si tenevano? E chi era questo San Fortunato a cui furono consacrate?

Dando una rapida scorsa ai documenti e andando a ritroso nel tempo ci accorgiamo che oltre al famoso Decretum dei frati c’è il vuoto. A eccezione di una testimonianza rilasciata nel 1318 da un frate, un certo Francesco di Damiano, che fu chiamato a testimoniare al processo di canonizzazione della sorella Chiara da Montefalco, per la cronaca oggi santa.

Francesco, sentito come teste numero 45, dichiarò che in gioventù la sorella lo aveva spronato ad andare a fare penitenza e a pregare in alcune grotte solitarie vicino al paese…


« Adhuc diebus dominicis et festivis instruebat eum quod yret ad groctas seu testudines solitarias, et ad deserta loca cum duobus aliis predicatis ab ea, ab orationes faciendum (…) »

« Inoltre nei giorni di domenica e delle altre feste ella gli consigliava di recarsi in una certa grotta solitaria e in luogo deserto, con due altri compagni indicati da lei, a farvi orazione (…) »


Che quelle grotte fossero proprio le famose grotte a cui alludeva il Decretum, consacrate secondo la leggenda dai santi Fortunato e Severo, non ci sono grossi dubbi, anche tra gli studiosi più blasonati.

Ma ancora non siamo venuti a capo di nulla!
Soprattutto, non abbiamo risposto alla domanda iniziale: cosa mai c’entrava San Fortunato con queste grotte?

Le aveva davvero consacrate lui, ci aveva compiuto qualche miracolo degno di cotanto nome oppure le aveva semplicemente abitate?
Pare proprio di no. La diceria contenuta nel Decretum, che associava le grotte al culto del santo patrono di Montefalco, sembra niente altro che una leggenda, almeno a giudicare dall’unica agiografia estesa rimasta in nostro possesso, la Vita Sancti Fortunati confessoris. Il manoscritto emerge da uno scaffale dell’Archivio del Duomo di Spoleto – città da cui dipendeva proprio Montefalco ai tempi di Fortunato –.
Cosa si legge nel Lezionario del Duomo?

Naturalmente i soliti aneddoti del repertorio agiografico, edificanti e saporosi, tipo la storiella dell’angelo travestito da mendicante o quella della colomba bianca che usa la zucca del santo come fosse una banderuola.

Ma c’è anche dell’altro: due dettagli in particolare.

Il post continua a questo indirizzo, con tante immagini e la bibliografia...

lunedì 2 marzo 2009

ELEUSI EDIZIONI, e lo stregone si rifà il look...


Informo tutti i naviganti che da oggi è ufficialmente disponibile qui la nuova edizione de Lo stregone di Assisi corretta e aggiornata (sì, perchè con tutta la bibliografia del libro non mi è bastato un anno di assidue correzioni). Una nuova edizione ricorretta dicevo, e finalmente, udite udite, con una casa editrice alle spalle!
Ma stavolta non è di un miracolo che stiamo parlando. Il trucco c'è, eccome; e del resto, di magia un pò anch'io me ne intendo. Le Edizioni Eleusi le ho create pochi mesi fa per promuovere tutta quella saggistica irriverente e politicamente scorretta che indaga i recessi della storia e del paganesimo. Storia sì, e laicità, e agnosticismo; ma anche magia, arte ed esoterismo. Per tutti coloro che, come il sottoscritto, non si sono ancora rassegnati all'idea che il mondo dell'editoria non abbia più niente da dire.
Bando ai sani principi, veniamo alla ciccia. Per l'occasione, e mi duole, ho ritoccato il prezzo de Lo stregone, anche se di pochi spiccioli. Da oggi lo trovate in vendita a 10 euro sul mio sito e tra qualche giorno nei punti vendita convenzionati.
Quindi affrettatevi ad acquistare le ultime copie rimaste in giro della vecchia versione, perchè a breve andrà in soffitta e sarete costretti a contribuire non più alle tasche del sottoscritto ma a quelle di Eleusi.
Per carità,forse ci sarà anche qualche intrepido autore pronto a sperare nella seconda ipotesi. Si sa, mai disperare a questo mondo, e poi chissà... ;)

p.s. ah, dimenticavo! www.eleusiedizioni.it per tutti i particolari...

martedì 17 febbraio 2009

Il Bosco delle Fate: la storia non scritta della Verna


Nell’immaginario cattolico esistono dei luoghi intoccabili. Si tratta di veri e propri feudi della cristianità in cui solo pochi pellegrini ispirati dal Vangelo possono avventurarsi e coglierne il mistero profondo.
Guai a mettere in discussione le origini cristiane di questi santuari; guai a insinuare che detti luoghi non erano delle terre di nessuno prima che il Cristianesimo le lambisse. Guai, soprattutto, a farsi venire in mente strane idee di sacerdoti druidi e riti pagani; come minimo, vi taccerebbero di ateismo e insinuerebbero che i vostri siano pensieri di stampo satanico.
Ma noi, che magari non siamo tutti credenti, ma soprattutto, noi che siamo stufi di essere definiti tout cour adepti del demonio, ci turiamo le orecchie e andiamo avanti per la nostra strada.

…dicevo, esistono nel mondo cattolico dei santuari intoccabili.

Ebbene, La Verna è sicuramente uno di questi. I più la conoscono come il monte prediletto da Francesco; la vetta disabitata, immersa nella contemplazione e nel silenzio, su cui il santo di Assisi prese le stimmate dopo essersi ritirato in meditazione.
Diciamolo subito; a noi, che abbiamo indagato a fondo i retroscena stregoneschi della vita di Francesco, la strana storia de La Verna non ci convince del tutto. Tante domande ci vengono in mente, ma la prima e la più forte a cui sentiamo di dover dare subito una risposta è la seguente: perché Francesco scelse proprio questo luogo per compiere un rito destinato a consegnarlo alla storia della fede? Cos’aveva di così speciale il monte de La Verna tanto da essere preferito ai rilievi dell’Umbria e del Reatino, in cui invece il frate era solito sostare?

Quello che stiamo per intraprendere è un viaggio nelle fonti, ma anche nella memoria orale dei popoli che abitavano quelle lande e che più di tutti, certo più degli agiografi e degli stessi frati, ci hanno trasmesso indizi succulenti per ricostruire con precisione l’altra storia magica de La Verna.

Tutto comincia da un sospetto.

Siamo intorno al maggio del 1213. Francesco è reduce dal successo di Narni dove ha fondato una serie di eremi tra cui il misterioso santuario rupestre di Vasciano, che esamineremo in un prossimo articolo.
Cerca sostegni in giro per l’Umbria e dintorni per creare consenso intorno a sé e tornare di nuovo dal papa per farsi confermare con una Regola scritta la sua fraternitas. Giunto al castello di San Leo in Casentino in occasione dell’investitura di un nobile della famiglia Catani, Francesco spera di prendere accordi con qualche potente della zona. Un uomo, il conte Orlando di Chiusi, lo nota; sembra sia un pezzo grosso, nell’atto di donazione ufficiale de La Verna sancito tra i frati e i suoi discendenti il 9 luglio del 1274, ci viene descritto infatti come «uno dei più prodi tra i guerrieri dell’Imperatore». Colpito dal fervore della sua predica, il conte Orlando chiede all’aspirante santo di prendere possesso del monte adducendo motivi ‘serafici’.

Onde, compiuta la predica, egli trasse santo Francesco da parte e dissegli […] “Io ho in Toscana uno monte devotissimo il quale si chiama il monte della Vernia, lo quale è molto solitario e selvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalla gente, o a chi desidera vita solitaria. S’egli ti piacesse, volentieri lo ti donerei a te e a’ tuoi compagni per salute dell’anima mia. Cfr. Fioretti, Della Prima considerazione delle sacre sante istimate, ff 1898-1899.

Francesco, naturalmente, non se lo fa ripetere due volte e accetta la proposta del conte di prendere in affitto quel cocuzzolo per i suoi ritiri spirituali. Ma il dettaglio più insolito, quello che alimenta i nostri sospetti, arriva poco dopo, quando Francesco manda al conte due suoi emissari per perlustrare il sito…

E volendo egli mostrare loro [i due frati mandati da Francesco in ricognizione, n.d.a.] il monte della Vernia, sì mandò con loro bene da cinquanta uomini armati, acciò che li difendessimo dalle fiere selvatiche.

Detta così, la giustificazione addotta dall’agiografo dei Fioretti sembra più che scontata. È comprensibile che il conte facesse scortare degli ospiti che si stavano per inoltrare nel cuore della foresta da una milizia armata; ma in realtà, i 50 uomini di questa soldatesca fanno un certo effetto se si pensa che i frati erano già abituati a percorrere da soli decine di sentieri montani abitati da fere e lupi.

I casi quindi sono due.

O La Verna all’epoca era molto più selvatica e inospitale di tutti gli altri monti visitati fino ad allora dai frati, oppure il bosco non era così solitario come vogliono farci intendere le fonti, ma nella selva si nascondevano indigeni e banditi che potevano mettere a repentaglio l’incolumità dei frati. Ma allora, perché spedire là Francesco?
Per capirlo facciamo un sopralluogo alla Verna, il primo di una lunga serie…
Il passo della Verna, che si trova in corrispondenza del monte vero e proprio, chiamato Penna, è un affastellato di rocce del Miocene ricoperte da una foresta lussureggiante fatta di querce e faggi secolari; i pellegrini che, al contrario di noi vili peccatori, scelgono di percorrere l’erta a piedi, vi arrivano attraverso due sentieri dai nomi agli antipodi, ma sorprendenti.

Il primo sentiero è noto come Bosco del Beato Giovanni, e si riferisce all’episodio che vide protagonista l’eremita Giovanni della Verna, il quale un mattino del 1518 vide la Madonna appollaiata su un faggio mentre cullava il bambin Gesù. Così quel faggio divenne sacro –lo sapevamo!–, mentre nelle adiacenze fu costruita una cappella per celebrare il lieto evento.
L’altro sentiero, che non vanta stranamente episodi rilevanti tramandati dalla tradizione francescana, è chiamato –e so quanto sia difficile crederci– il Bosco delle Fate . Lo costellano alberi imponenti che troneggiano coi loro tronchi, testimoni di un passato che forse alla fine delle nostre ricerche riusciremo in parte a svelare.

Ma torniamo alla domanda di partenza: è mai possibile che non si riesca a capire perché Francesco –mettendo da parte l’amenità del paesaggio– amasse così tanto La Verna?

Di primo acchito, dare una risposta a questa domanda appare sempre più difficile; malgrado quello de La Verna sia un capitolo cruciale nell’esperienza umana di Francesco, al santuario sono dedicate nelle fonti appena una decina di pagine, anche a causa della distruzione delle agiografie francescane voluta dal Concilio di Pisa del 1263, che decretò la sparizione e l’insabbiamento di tutte le Vitae di Francesco diverse dalla Legenda Maior di Bonaventura , compresi quindi i racconti conservati negli eremi. I nostri dubbi, quindi, sembrano destinati a rimanere insoluti, quando ci viene incontro un libro...

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