giovedì 24 dicembre 2015

Boschi sacri:
l'ascia di san Felice
all'abbazia di Sant'Anatolia di Narco

In un vecchio post, Francesco, lo stregone che piantava gli alberi, raccontavo che i monaci nell'Alto Medioevo furono prima di tutto dei feroci disboscatori.

Una traccia preziosa è sopravvissuta sulla facciata della chiesa abbaziale di San Felice a sant'Anatolia di Narco, un piccolo capolavoro del romanico spoletino.


Sotto il rosone, un fregio riporta due bassorilievi con i miracoli compiuti da san Felice: la resurrezione del figlio di una vedova e l'abbattimento a colpi d'ascia di un temibile drago, colto proprio mentre esce dalla sua tana...


L'arma usata dal santo è molto eloquente: ci racconta come i monaci attuarono la famigerata 'bonifica benedettina' per estirpare il paganesimo nelle campagne.

L'ascia è un indizio prezioso.
Qui intorno doveva esserci un bosco sacro, prima che san Felice facesse il 'miracolo'.

L'interno della chiesa è abbastanza tetro, con una scalinata scenografica che proietta l'altare in un'altra dimensione [1].


Passeggiando nella navata emerge qualche tardo affresco superstite.
Ecco di nuovo il nostro povero drago in un ex-voto, trafitto stavolta da san Michele.


San Felice è praticamente sconosciuto alle fonti, eppure anche molto popolare in zona (a due passi si trova il borgo di Castel San Felice!).

Secondo l'agiografo Ludovico Iacobilli, san Felice -da non confondersi con quello dell'abbazia di Giano dell'Umbria!- era un monaco siriano figlio di un certo san Mauro [2].

Morì il 16 giugno 535. Nella Cripta della chiesa è conservato il suo sarcofago protetto da una impenetrabile gabbia di ferro.

A vederla da vicino, questo san Felice ci fa ancora un po' paura!


Note

[1] La scalinata dell'altare di San Felice non è né l'unica esistente in Umbria né la più scenografica!
Ne ho esaminate altre nel post Le scale di Dio: la scena del potere al tempo di san Francesco.

[2] La testimonianza di Iacobilli è riportata per intero in Abbazie benedettine in Umbria, di Francesco Guarino e Alberto Melelli, Quattroemme 2008, p. 139.

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